Lavorare con i giapponesi, una storia di amicizie e ustioni

Lavorare con i giapponesi, una storia di amicizie e ustioni

di Alessandro “DocManhattan” Apreda

Rieccomi qui. Qualche settimana fa, nell’elencare in modo ironico tanti aspetti che del Giappone, anche dopo tutti questi anni, mi lasciano ancora oggi “incuriosito, affascinato e un pelo sgomento”, accennavo a quanto sia complicato interfacciarsi con un ambiente lavorativo giapponese.

Raccontavo ad esempio quanto frustrante sia dover risalire la scala gerarchica del comando per ogni cosa che richieda anche solo vagamente un’autorizzazione, qualunque cosa inneschi l’ineluttabile scalata della catena di comando. E quello per chiedere un’indicazione a una biglietteria, metti. Ora figuratevi un rapporto di lavoro, una riunione con dei possibili partner professionali, qualunque occasione che un minimo di formalità e di gioco delle parti lo richieda di suo.

Sono stato in Giappone per lavoro, la prima volta, nel 2005, per acquistare con un amico degli anime da portare in Italia. Dieci giorni in giro per aziende che ancora producevano o semplicemente gestivano i diritti di produzioni animate: da un lato un’esperienza da sogno, per chi con l’animazione giapponese c’è venuto su (uno come me, mettiamo); dall’altro un corso acceleratissimo di quello che significa interagire professionalmente con dei giapponesi. O meglio, con dei salaryman di Tokyo, che non è proprio la stessa cosa, come vi ha spiegato spesso Tommaso.

In seguito, per lavoro, in Giappone ci sarei finito tante altre volte, alternando i viaggi da turista alle trasferte per le fiere del videogioco, i press tour per il lancio di questo o quel titolo, le visite a studi e software house. Ma non sarei stato più impreparato, perché quel primo viaggio mi aveva dato tutte le basi, spalancato gli occhi su quello che va fatto e quello che non va assolutamente fatto. Perché ok, il bon ton professionale, il bigliettino da visita studiato attentamente reggendolo con due mani, tutto l’ABC. Ma il resto, prima di partire, non potevi immaginarlo. Un resto fatto di caffè ustionanti e grandi amicizie alcoliche, sempre camminando sulle uova.

“La sala riunioni in cui ci aspettavano aveva alte vetrate

in stile boss di fine livello di un picchiaduro a scorrimento degli anni 90″

Una delle cose che volevo vedere di più, in quella prima sgambata in giro per Tokyo, era la sede di Kodansha, la più grande casa editrice del Giappone. Entrare in quel quartier generale, un alto palazzo che svettava su una zona tranquilla del quartiere di Bunkyō, è stato come entrare alla RAI. Letteralmente, con tanto di consegna dei documenti e schedatura all’ingresso. La sala riunioni in cui ci aspettavano aveva alte vetrate in stile boss di fine livello di un picchiaduro a scorrimento degli anni 90, con varie vetrinette piene di pupazzetti e gadget (ricordo solo i Barbapapà. Non chiedetemi il perché), un austero tavolo bianco, luci soffuse.

Lì, come altrove, e per altrove intendo quasi ovunque, vigeva il principio ferreo dell’anzianità di servizio. Parla il più vecchio, che in genere è per questo il capo, e i sottoposti in totale silenzio. In quel caso, l’inglese del nostro interlocutore non era però, come dire, esattamente quello della BBC. Oh, non lo era manco il mio, per niente, solo che era difficile far girare proprio il discorso. E si stava parlando di diritti, di affari, non discutendo del meteo. Cosa c’è di strano? Che gli assistenti avevano invece un inglese perfetto, davvero da anchorman britannici. Ma siccome erano giovani, dovevano stare muti. Hanno aperto bocca solo quando il capo si è alzato per andare a prendere il mio caffè della morte.

“Il mio amico mi fa una serie di cenni, tra un sorriso e l’altro,

per farmi capire che non posso rifiutare”

Il che ci porta alla lezione numero 2 appresa quel giorno. Ai tempi non bevevo caffè. E sì, la cosa è buffa perché oggi ne bevo anche troppo, ma prima che parta un comprensibile sticacchi tra il pubblico, spiego che la cosa ha qui una sua rilevanza. I due caffè per noi era andati a prenderli direttamente il capo: era un gesto di estrema cortesia, un’apertura di credito tutt’altro che trascurabile nel gelo di quell’incontro, in quell’austera sala riunioni da boss di Streets of Rage. Con le dovute proporzioni, era come se si fosse alzato per abbracciarvi.

Solo che non bevevo caffè. Cioè, ero un italiano, dovevo berlo il caffè, no? Uh, no. Il mio amico mi fa una serie di cenni, tra un sorriso e l’altro, per farmi capire che non posso rifiutare. Sarebbe stato estremamente scortese, e non si voleva mica contrariare la persona con cui stai trattando. Così, non sapendo cosa altro fare, appoggio la tazzina al labbro e faccio finta di bere. E mi ustiono completamente il labbro superiore, cartonandolo all’istante.

Il sangue freddo che ho mostrato nel dissimulare l’accaduto, senza correre via per urlare da qualche parte, come Fantozzi al campeggio, io non lo so. Miracoli della gioventù.

Quella stessa scena, fortunatamente senza il caffè prossimo ai 100 gradi e quindi all’evaporazione, mi si è ripresentata in varie altre occasioni. Fettuccine alla panna GELATE in agosto, ospite di una nota azienda di videogame. Dolci terrificanti. Perfino un sushi terribile, uno dei peggiori mai provati, incredibilmente in un locale strapettinato e costosissimo, frequentato dai dirigenti della NHK. Vai a sapere.

“Non ho mai capito se l’alcol non lo reggono proprio, nel senso di mai,

o se fa tutto parte di un grande gioco di ruolo”

Una faccenda diametralmente opposta? Le storie di amicizia alcolica. Non importa quanto formale sia stata la giornata, la riunione, la serie di incontri precedenti. Se un giapponese ti porta a mangiare fuori, sono passate le 19 e tocca un centilitro di birra da 0,2 gradi, questo lo autorizza a cambiare completamente atteggiamento. Chi di voi è stato in Giappone e ha messo piede in un pub o un karaoke magari lo sa già: la birra è il grande collante sociale del paese, quello che rende tutti più sciolti, naturali, socievoli. A volte, in casi specifici, più umani.

Così c’è che il responsabile che fino a qualche ora prima stava lì a cazziare l’interprete e guardarmi con l’indifferenza con cui Gojira fissa un elicottero militare prima di vaporizzarlo, diventa un mio grande amico. Mi abbraccia, vuole sapere tutto dell’Italia, di me, del mio mondo. Non ho mai capito se l’alcol non lo reggono proprio, nel senso di mai, neanche una birretta di quelle che in altri paesi usano come collutorio, o se fa tutto parte di un grande gioco di ruolo. Della possibilità di liberarsi degli schemi rigidi, delle regole sociali ferree e inflessibili a cui sono sottoposti nell’ambiente lavorativo. Di essere un po’, se vogliamo, sé stessi. Ma l’importante è che una volta che l’ho capito, avevo un’arma in più. Inutile scornarsi con qualcuno, se puoi diventare il suo migliore amico quella sera stessa, e affrontare il tutto nella riunione del giorno dopo con un altro piglio, no?

CONSIGLI MANGA PER

RESPIRARE IL GIAPPONE

(articolo completo qui)

La taverna di mezzanotte – Tokyo Stories

Parlando di atmosfere, un’altra che è facile assaporare qui in Giappone, magari davanti a una tazza di ramen fumante, è quella dei locali. Luci basse, calma, avventori che entrano ed escono in fretta. Tirandosi dietro ciascuno la propria storia. È lo spunto da cui parte una serie che molti di voi avranno visto su Netflix, Midnight Diner – Tokyo Stories. Le vite di vari abitanti della metropoli, da insegnanti in pensione a game designer, da ex eroi dei tokusatsu a un impiegato di una sala di pachinko, che scorrono sotto gli occhi impassibili del proprietario di una minuscola izakaya da 12 posti, in un vicolo di Shinjuku. Quello che non tutti sanno è che la serie è stata tratta da un manga di Yaro Abe, edito in Italia per Bao, con il titolo La taverna di Mezzanotte – Tokyo Stories. I volumi arriveranno nei prossimi mesi, a cadenza semestrale.

L’uomo che cammina

Una delle opere più celebri di Jiro Taniguchi, compianto mangaka di incredibile sensibilità, dal tratto estremamente universale, ma capace come pochi di cogliere il particolare, il bello delle piccole cose, di ciò che ci circonda nel quotidiano. Esattamente come fa il protagonista de L’uomo che cammina, un volume unico del 1990 che racconta le passeggiate di un signore senza nome nelle vie del suo quartiere. Passeggiate durante le quali apprezza semplicemente la pace di ciò che lo circonda. Se siete mai stati in Giappone e, in preda al jet lag, vi siete ritrovati a girovagare stupiti nelle vie attorno al vostro albergo, a orari improbabili, fissando increduli quanto vi circondava, siete pronti per riassaporare quelle sensazioni. In Italia è stato pubblicato da Panini Comics/Planet Manga.

Alessandro DocManhattan Apreda
Alessandro DocManhattan Apreda
Alessandro Apreda, o DocManhattan, il nick con cui scrive cose sul web. Responsabile editoriale in passato di varie riviste, da PlayGeneration a Turisti per Caso, Digital Japan e Horror Mania, ha collaborato con IGN, Multiplayer, ScreenWeek, MTV, RAI, Paramount. Autore di fumetti e libri (come Tokyo - La Guida Nerd), cura dal 2007 il blog L’Antro Atomico del Dr. Manhattan antro.it. Ha una passione inestinguibile per il miso ramen. Lo trovate anche su Instagram