Itaria – L’Italia in Giappone (e viceversa)

Itaria – L’Italia in Giappone (e viceversa)

di Alessandro “DocManhattan” Apreda

Un posto in cui è una fortuna essere italiani, e non è l’Italia: otto lettere. Non è ben chiaro da dove nasca l’amore apparentemente inscalfibile del Giappone e dei giapponesi per il nostro paese, ma c’è, ed è un sentimento profondo, che ritrovi in mille cose. Buffe, toccanti, a volte assurde. A un esame superficiale, limitandosi a passeggiare per le vie di Tokyo, Osaka o qualsiasi altra grande metropoli dell’arcipelago, potrebbe sembrare semplicemente una fascinazione per il Made in Italy e per quello che esportiamo meglio e un po’ ovunque nel mondo, cioè il cibo e la moda. Ma pure lì, oscillando tra un opposto e l’altro, senza mezze misure, come i giapponesi adorano fare praticamente sempre.

Il che vuol dire passare dagli austeri megastore del lusso a Omotesando e Ginza a un miliardo di negozietti che vendono finti abiti e finte scarpe da salaryman (scarpe brutte, dicevamo qualche settimana fa. Sempre. Per legge, proprio) italiani, avviluppati in vetrina da bandierine e fettucce tricolore, dai nomi improbabili. Chi non comprerebbe del resto un tre pezzi Ambassiadore o Elegantea? Con il cibo è uguale: il Giappone è l’unico paese in cui puoi mangiare delle pizze napoletane perfette in centinaia di ristoranti diversi. Certo, preparate ognuna da un team di quattro pizzaioli, perché il livello di specializzazione per singoli compiti è assoluto, e non è che lo spargitore di mozzarella lo può fare chiunque. E sì, la fissazione encomiabile per le materie prime fa sì che quella margherita ti costi magari diciotto euro, ma non è affatto così scontata questa meraviglia che a Tokyo riesci a mangiarne una migliore di quella che ti servirebbero in tant(issim)e pizzerie italiane. Provate a dirlo a chi del Giappone non sa nulla, e sorridete della sua incredulità.

 “Trattoria Scassacazzi, La Pausa, Pesce Pappare Italia”

Il rovescio della stessa moneta da 100 yen è ovviamente pure qua la costellazione di ristoranti finto-italiani con quei nomi bellissimi, diventati leggenda in qualsiasi GiappoTour: Il Vigore, la catena La Pausa con i suoi cartelloni che quando ci passi davanti ti fanno sputare qualunque cosa tu stia bevendo, tutto un mondo di Trattoria Scassacazzi, lo storico Pesce Pappare Italia a Shibuya, BuonArpetito, eccetera eccetera. Avrete visto tante volte le carrellate di foto sui social di Tommaso (L’italiano a modo mio Parte 1L’italiano a modo mio 2L’italiano a modo mio Il Video).

Ma, si diceva, non è solo il cibo, non sono solo i vestiti. Quello giapponese è un popolo estremamente curioso, che si è riaperto al mondo esterno relativamente da poco, da un secolo e mezzo, ed è quindi portato naturalmente all’esterofilia. All’alba del grande boom turistico del Giappone, quindici anni fa, ricordo quanta curiosità generassero in un pub, la sera, degli stranieri con i capelli biondi o con delle basette rosse fino al mento come le mie. Non c’erano troppi gaijin in giro, soprattutto a gennaio o novembre, e quelli lì facevano simpatia. Ma se eri italiano, ne generavi molta, molta di più.

“Lei ti rispose che dell’Italia e degli italiani, ai giapponesi, piace soprattutto “quel senso di libertà”

Una volta, tanto tempo fa, chiesi a una ragazza giapponese cosa ci vedessero di particolare i suoi connazionali in noi italiani. Perché ok che la cultura nipponica si interessa a un certo argomento perché va di moda, procedendo a strappi da un tema all’altro, ma questa fissa per l’Italia non sembrava avere fine. Perché se accendi la TV è facile che ci trovi a qualsiasi ora un documentario con le scritte fluo in sovraimpressione e gli “Eeeeeeeh” registrati che ti mostra Capri o le terre del Chianti? Un co-conduttore italiano che spiega i tranelli della nostra lingua? Gente che canta un brano di Bobby Solo? Lei ti rispose che dell’Italia e degli italiani, ai giapponesi, piace soprattutto “quel senso di libertà”.

Hai riflettuto a lungo su quelle parole, in seguito. Ogni volta che ti veniva da paragonare una fila ordinata in Giappone a quelle resse orizzontali in cui tendono a trasformarsi le file qui da noi, per esempio. Essere liberi vuol dire vivere in un paese senza le asfissianti regole sociali del Giappone e in particolare di Tokyo? Saremo poi liberi davvero, noi, o solo più casinisti? E sarà per questo che gli abitanti di Osaka ci sembrano più vicini ai nostri modi di fare, visto che sono un po’ i meridionali del paese? Se ne fregano molto meno, della forma, e sorridono da sempre di più (col fatto che non avevano questo problema, proprio dell’antica Edo, dei samurai che ti potevano aprire in due se ti trovavano a ridere in loro presenza e si sentivano scherniti dalla cosa)? E non staremmo in ogni caso tutti molto meglio, noi e loro, se riuscissimo a coniugare un minimo le due cose?

“il modo in cui tutti si sforzavano di dissimulare la delusione per la mia incapacità di eseguire una perfetta rovesciata da figure Panini (su dei cross peraltro a due metri dal suolo)”

La tesi della libertà l’ho sentita più e più volte. Si riproponeva, come un parente sotto le feste. Unita magari alla simpatia innata, all’estro, e a determinate caratteristiche che in quanto italiano dovrebbero essere proprie del tuo patrimonio genetico. Per una bizzarra fusione super saiyan di luoghi comuni, negli incontri di lavoro con dei giapponesi si presupponeva che io avessi una conoscenza enciclopedica di qualsiasi film di qualsiasi genere mai girato tra le Alpi e la Sicilia, o di tutti i campioni tricolore di qualsiasi sport, categoria ed epoca. Che avessi del buon gusto nel vestire, un’ugola d’oro, un potenziale ai fornelli da almeno due stelle Michelin e che la mia padronanza del gioco del calcio fosse quantomeno al livello di un capocannoniere della Serie B. Una volta venni trascinato con entusiasmo in una partita di calcetto aziendale, in onore dello sport e della fratellanza dei popoli, e il modo in cui tutti si sforzavano di dissimulare la delusione per la mia incapacità di eseguire una perfetta rovesciata da figure Panini (su dei cross peraltro a due metri dal suolo) faceva, beh, tenerezza. Avete presente quando un impallinato di manga e anime va in Giappone per la prima volta e resta sbigottito perché non tutta la popolazione locale conosce in effetti Goblin Slayer? Ecco.

“Però sei italiano, e questo sembra contare sempre, a renderti diverso e speciale”

Però sei italiano, e questo sembra contare sempre, a renderti diverso e speciale. In qualche modo, migliore ai loro occhi di quanto non ti senta tu stesso. E se sai cantare davvero tanto più, soprattutto quando sei lì davanti al Fushimi Inari Taisha di Kyoto e ti si avvicina – immancabile – uno di quei pensionati che hanno coltivato negli anni la passione per la lirica o per le canzoni napoletane, e al primo accenno d’italiani in zona vuole esibire tutto il repertorio. “Ciao, caro, come va il viaggio?” “No, tutto ok, mamma, oggi abbiamo cantato in coro Reginè, quanno stive cu mico, con un ottantenne simpatico con il cappello con la visiera trasparente da croupier”.

E poco conta che l’Italia che i giapponesi hanno in mente e nel cuore in realtà non esiste, è finta come il cielo con le nuvolette del Venus Fort di Odaiba. L’Italia per i nostri amici del Giappone è essenzialmente una Napoli da cartolina, solare e splendente, in cui tutti vanno in giro vestiti benissimo, alfieri dell’eleganza e della simpatia, come neanche nella più ottimista delle fiction RAI. Un amico che faceva la guida turistica in Italia e accompagnava gruppi di giapponesi a Roma, nella prima metà degli anni Duemila, mi raccontava lo sconforto che coglieva i turisti nell’impatto con i nostri bagni pubblici, mai neanche lontanamente puliti come quelli del Sol Levante. Delle file al Mitsukoshi di via Nazionale, perché lì almeno i bagni dovevano essere accettabili. La vera Italia era troppo chiassosa, l’aria troppo poco pulita, il caos in cui erano infagottate le tante meraviglie di questo paese, frastornante. Pure quello, immagino, uno shock culturare mica da ridere. Però quei turisti andavano via contenti. Magari era la simpatia. Magari era il senso di libertà. Magari le abbuffate di cacio e pepe. Magari semplicemente il fatto che c’è qualcosa di più profondo che ci lega, a qualche livello, e che rende il Giappone un posto magico ai nostri occhi e l’Italia così bella ai loro. Forse non sapremo mai esattamente cos’è, e del resto non importa davvero, no? L’importante è che ci sia, esista, e ci renda più simili di quanto si possa pensare. T’aggio vuluto bene a te, tu m’è vuluto bene a me.

LETTURE CONSIGLIATE

Tokyo cyberpunk

Ho avuto già molte volte modo di parlarvi di TO:KY:OO, il bellissimo libro fotografico di Liam Wong, ma è un titolo che non può mancare in una carrellata come questa. Introdotto da una prefazione di sua maestà Hideo Kojima, questo libro raccoglie una serie di scatti di Wong (scozzese di Edinburgo che ha vissuto in Canada e lavora nel mondo dei videogame pure lui) sotto una luce diversa. Quella al neon dell’immaginario cyberpunk. Da sempre, gli accostamenti tra la capitale giapponese e film come Blade Runner si sprecano, e Wong è riuscito a trasformare gli scorci notturni di Tokyo in un sogno cyberpunk evocativo, senza tempo. Un must sia per gli amanti di questa meravigliosa città, sia per gli appassionati di fotografia, per l’occhio pazzesco e la tecnica messi sul piatto dall’autore.

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Giappone. Viaggio fotografico

Dalle curiosità a un viaggio vero e proprio, attraverso una serie di fotografie che permettono di esplorare i luoghi più iconici, magici ma anche reconditi del paese. Un libro fotografico, questo della Lonely Planet, che con degli scatti bellissimi vi porterà a spasso per le metropoli del Sol Levante, sotto i ciliegi in fiore di Tokyo durante l’hanami, a fare il bagno con le scimmie nelle sorgenti calde, a contemplare il silenzio senza tempo di una foresta di bambù. Il tutto senza mai alzarvi dalla poltrona.

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La Bellezza del Giappone Segreto

Quello di Alex Kerr è un approccio unico al Giappone e ai giapponesi: la storia di un ragazzo americano che si ritrova a vivere nel Giappone degli anni 60 perché il padre è un ufficiale USA di stanza a Yokohama. E in Giappone Kerr torna a vivere poco dopo, trascorrendo nel suo paese adottivo oltre trent’anni della sua vita. Sono in Giappone da molto meno, ma conosco bene il richiamo di questa terra. Gran collezionista di arte giapponese e studioso della cultura nipponica, Kerr racconta nel ’93 ne La bellezza del Giappone segreto, un libro che decise di scrivere e pubblicare in giapponese, tutto ciò che di quel paese lo affascina. Ma non si tratta semplicemente di una dichiarazione d’amore, perché, filtrata attraverso la sensibilità dell’autore, c’è anche una critica all’identità che il Giappone in continua evoluzione sta perdendo. Gli anni caotici della grande Bolla, le tradizioni e l’appiattimento culturale, il paesaggio, la storia, il domani.

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Alessandro DocManhattan Apreda
Alessandro DocManhattan Apreda
Alessandro Apreda, o DocManhattan, il nick con cui scrive cose sul web. Responsabile editoriale in passato di varie riviste, da PlayGeneration a Turisti per Caso, Digital Japan e Horror Mania, ha collaborato con IGN, Multiplayer, ScreenWeek, MTV, RAI, Paramount. Autore di fumetti e libri (come Tokyo - La Guida Nerd), cura dal 2007 il blog L’Antro Atomico del Dr. Manhattan antro.it. Ha una passione inestinguibile per il miso ramen. Lo trovate anche su Instagram