altLa crisi economica venuta da Occidente è calata violenta come un fendente di katana anche su una delle più antiche, radicate e temute “istituzioni” criminali giapponesi: la yakuza, la “Cosa Nostra” del Sol Levante. Il mercato che va a rotoli, i soldi che non circolano o proprio non ci sono più, il netto ridimensionamento del livello generale del benessere, hanno colpito duramente persino un’organizzazione criminale che in Giappone può contare su numeri e forze impressionanti: quasi 100mila tra aderenti e affiliati, e un tentacolare giro di affari di miliardi di Yen che tra estorsione, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, traffico di droga, parte dall’Impero edochiano per arrivare a toccare praticamente quasi tutta l’Asia sud-occidentale, ma anche Russia e Stati Uniti.

La crisi mangia-profitti non risparmia nessuno. Proprio nessuno. E così non ci sono più attività commerciali da taglieggiare, traffici da controllare, appalti multimiliardari da pilotare. L’inossidabile sistema protofeudale alla base di questa organizzazione, che ha resistito caparbiamente al mutare dei tempi,degli usi e dei costumi, ora fa acqua da tutte le parti dinanzi alla fallimento dei subprime. Ai grandi capi della yakuza non resta allora che sventolare bandiera bianca (senza lo sfavillante sole rosso al centro), licenziare buona parte dei “picciotti” dagli occhi a mandorla, e mettersi in coda proprio come tutti gli altri sudditi indigenti dell’imperatore per ottenere il sussidio di disoccupazione e la pensione sociale.

La denuncia arriva dal diffusissimo quotidiano giapponese Yomuri, secondo il quale ammonterebbe addirittura a qualcosa come 500milioni di yen la cifra fraudolentemente sottratta alle casse statali dai boss della mafia, che si sono finti disoccupati e nullatenenti per vedere approvate le proprie domande di sussidio. Del resto, se è vero che il crimine non paga, è ancor più vero che non fa né fattura, né scontrino né ricevuta fiscale. Quindi fare i conti in tasca un boss, il cui patrimonio, per di più, è normalmente sparpagliato tra decine di prestanome e specchietti per le allodole, non è certo la più semplice delle imprese. Il governo di Tokio ha provato a correre ai ripari, stoppando le erogazioni fino ad allora così liberali anche nei confronti dei “cattivi”, e tentando di recuperare parte del maltolto. Il risultato, finora, è stato piuttosto deludente: solo 15 milioni degli oltre 500 erogati è tornato nelle casse erariali. Poco più del 2%.

Perché toccare un Oyabun, ossia un boss della yakuza, non è una passeggiata nemmeno per le severissime e intransigenti leggi giapponesi. Questa organizzazione criminale, regolata da norme ancestrali che affondano le radici nel passato remoto giapponese, è infatti qualcosa a metà tra la malavita e il para-stato, e dietro questo suo “status” tutto particolare ereditato dalla storia si crogiola e si sente al sicuro. I grandi capi della mafia locale si considerano un po’ gli eredi moderni degli Shogun, gli antichi feudatari giapponesi: vivono esistenze scandite spesso dai rituali dell’antica aristocrazia, trattano tra loro come piccoli capi di stato o governatori di province, e l’unica legge che conoscono e condividono è il rispetto assoluto e totale per la persona dell’Imperatore. Poi ognuno si fa da sé tutto il resto. La yakuza, come purtroppo molto spesso anche la nostra mafia, la camorra e la ‘ndrangheta, in Sicilia, Campania e Calabria, è rispettata e venerata oltre che temuta.

In più, il pur modernissimo ordinamento giuridico giapponese, ispirato ai Codici francesi e italiani e alle pandette tedesche, non contempla paradossalmente un reato come quello dell’associazione a delinquere. Nullum crimen sine lege, dicevano i latini: ovverosia non esiste reato fino a che non c’è una legge che lo contempli espressamente come tale. Gli Oyabun e i loro ferocissimi gregari, occhi di ghiaccio e schiene tatuate come arazzi, celebri per sottoporsi in caso di fallimento a efferate autopunizioni corporali come l’amputazione dei mignoli, da tutti temuti, rispettati, intoccabili, erano dunque in una botte di ferro. Erano. Fino a che non è arrivata la crisi, quella che rosicchia bilanci e risparmi e se ne frega di lame affilate, tradizioni millenarie e musi duri: di fronte a lei nemmeno moderni samurai rinnegati possono qualcosa. E nemmeno i brocardi latini. Mala tempora currunt.

tratto da L’Occidentale

Tommaso In Giappone
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